Ma basta questo perché la festa (“Feier”) odierna possa essere detta una commemorazione (“Gedenkfeier”)?
Ma cosa dobbiamo pensare, che dobbiamo dire commemorando un compositore? Non basta forse la musica, che già da sola “parla” nei propri suoni e quindi non ha bisogno del linguaggio abituale, il linguaggio della parola?
Ma ciononostante torna a riproporsi la domanda: una festa dove venga fatta solo della musica può dirsi già una commemorazione, vale a dire un’occasione per pensare?
Per qual motivo?
E se realmente siamo disposti a meditare, cosa ci viene proposto dalla commemorazione odierna?
Meditiamo più a fondo e domandiamoci: lo sbocciare di un’opera ben riuscita non comporta forse il suo radicarsi in seno alla propria terra?
Meditiamo più a fondo e domandiamoci: come stanno oggi le cose con quel che afferma Johann Peter Hebel? Esiste ancora quel quieto abitare dell’uomo tra terra e cielo? Domina ancora sul nostro paese lo spirito della meditazione? La nostra terra può ancora accogliere e nutrire le nostre radici, può ancora offrire un terreno fecondo su cui l’uomo può impiantarsi, può radicarsi stabilmente (“bodenständig”)?
E quei tedeschi che vi vivono ancora?
Meditiamo più a fondo e domandiamoci: cosa succede, non solo a coloro che hanno lasciato la propria terra, ma anche a quelli che vi sono rimasti?
Meditiamo ancora più a fondo e domandiamoci: se le cose stanno così potrà mai avvenire in futuro che l’uomo, l’opera dell’uomo riesca a sbocciare di nuovo dal seno fecondo della propria terra d’origine e possa espandersi nell’etere, nella vastità (“Weite”) del cielo e dello spirito? Oppure tutto dovrà cadere nella morsa della pianificazione e del calcolo, dell’organizzazione e dell’automatizzazione?
E ci domandiamo: cosa accade realmente nel nostro tempo? Da che cosa è caratterizzato?
Che pensare di questa affermazione? Scaturisce forse da una meditazione, pensa forse il senso dell’era atomica?
Perché?
Perché dimentichiamo di chiederci: da cosa dipendono le scoperte della scienza e della tecnica che portano a sprigionare nuove energie dalla natura?
Oggi la scienza e la tecnica non si domandano più: da dove possiamo ricavare quantità sufficiente di combustibile e di carburante?
Oggi la domanda decisiva suona: in che modo possiamo riuscire a domare e ad imbrigliare queste quantità di energia atomica inimmaginabilmente grandi, in che modo possiamo assicurare all’umanità che questa enorme riserva di energia improvvisamente non si ribelli, anche non per effetto di una guerra, non “sfugga di mano”, non annienti ogni cosa?
Perciò ora ci domandiamo: se l’antico modo di radicarsi dell’uomo è già andato perduto, non potrebbe esserci concesso ancora un nuovo fondamento, un nuovo terreno, radicandosi nel quale l’essere dell’uomo ed ogni sua opera possano sbocciare in modo nuovo, persino all’interno dell’era atomica?
Quale potrebbe essere questo fondamento, questo terreno su cui stabilire in futuro le proprie radici?
Ma se diciamo allo stesso tempo sì e no ai prodotti della tecnica, il nostro rapporto al mondo della tecnica non diventerà forse ambiguo e incerto?
Per qual motivo?
Soltanto perché da un momento all’altro potrebbe scoppiare una terza guerra mondiale che avrebbe per conseguenze il completo annientamento dell’umanità e la devastazione della terra?
In che modo deve essere intesa questa frase?
Quale grande pericolo si starebbe allora avvicinando?
E allora?
E. Perché non: nel risveglio dell’abbandono?
Cerchiamo infatti di determinare l’essenza del pensare: ora, cos’ha a che fare l’abbandono con il pensare?
S. Allora cosa debbo mai fare?
Di cosa dobbiamo restare in attesa? E dove?
E. Ma non ci resta ancora il nostro cammino?
S. Cosa ci resta ancora da pensare, se dobbiamo passare oltre per pervenire a quell’essenza del pensare di cui finora non si è fatta ancora esperienza?
E. Quindi Lei non avrebbe intenzione di lasciar cadere l’interpretazione dell’essenza del pensare che finora ha prevalso?
M. Ha forse dimenticato ciò che ho detto nel nostro colloquio precedente su ciò che è rivoluzionario?
E. Per qual motivo pone l’accento su questo fatto?
S. A cosa pensa con questa affermazione?
Ma cos’è questo Aperto in se stesso, se rinunciamo a coglierlo nel suo manifestarsi anche come orizzonte del nostro rappresentare?
Che cosa significa allora questa parola?
È possibile da questo accenno trarre un’indicazione che ci aiuti a determinare l’essenza di ciò che vogliamo chiamare: la contrada?
S. Ma in quale luogo trovan quiete le cose, e in cosa consiste il trovar quiete?
E. Ma allora nel rivolgersi, che pure è un movimento, può sussistere una quiete?
S. Allora ci è anche impossibile descrivere le cose dette?
S. Come deve configurarsi allora?
E. Per qual motivo?
E. Ma com’è che all’improvviso è stato in grado di attendere?
M. Ci può dire in che modo è così?
E. Dove conduce questa via straordinaria e dove trova quiete il movimento che le è proprio?
S. Ora però debbo tornare un po’ indietro e domandare finalmente: come si configura in generale ciò a cui ho cercato di lasciarmi ricondurre, l’abbandono?
S. Come mai?
Cosa dobbiamo fare per valutare se ed in qual misura questo nome è adatto?
E. Oppure ogni volta che diamo un nome compiamo un arbitrio nei confronti di ciò che non ha nome?
M. Ma è poi così certo che esista in generale qualcosa che non ha un nome?
E. Ma da chi esse ricevono il nome?
S. In che modo?
M. Che cos’è ciò a cui Lei ha dato il nome di abbandono?
E. Chi è stato allora? Nessuno di noi?
Cosa vuol dire: restare in attesa?
E. Perché no?
M. Ma non siamo già appropriati alla contrata?
S. A che giova questo, se non lo siamo davvero?
Ora, come dobbiamo chiamare il farsi-incontro della contrata in rapporto alla cosa?
M. Che nome dobbiamo allora dare al rapporto della contrata alla cosa, se la contrata fa che la cosa permanga in se stessa come cosa?
E. Perché si richiama con tanta insistenza a questo rapporto?
S. Ma allora in che cosa consiste?
E. Ma in che modo l’abbandono si trova rapportato a ciò che non è volere?
E. Lei allora ritiene necessario, per ovviare a questo possibile fraintendimento dell’abbandono, mostrare in che modo anche nell’abbandono viga (“waltet”) qualcosa di simile ad una forza d’azione, ad una decisione?
Ma anche tenendo conto di questo, non resta ancora una difficoltà insuperabile quando parliamo (“in der Satz”) della relazione essenziale tra l’essenza dell’uomo e la contrata?
Ma non è carattere distintivo della verità, proprio in ciò che concerne la sua relazione all’uomo, il fatto che essa sia ciò che è restando indipendente dall’uomo?
E. Lei pensa forse di essere in prossimità dell’essenza della contrata e nello stesso tempo lontano da essa?
S. Come si configurano invece la prossimità (“Nähe”) e la lontananza (“Ferne”), in cui la contrata traspare e scompare, si avvicina e si allontana?
M. bensì?
M. Ma quale sarebbe allora l’essenza del pensare se la contrata è la prossimità di ciò che è lontano?
S. Quindi, se posso dir così, è una reminiscenza storica (“historisch”)?
S. Di quale frammento fa parte?
S. Come suona questo frammento?
S. Che cosa significa?
Ma allora è proprio deciso che “Anchibasíe” significhi: approcciare?
S. Lei pensa questo proprio alla lettera, nel senso di “lasciarsi-ricondurre-nella-prossimità” (“”In-die-Nähe-hinein-sich-einlassen””)?
E. La meraviglia potrebbe allora dischiuderci ciò che è chiuso?
Martin Heidegger, L’ abbandono, introduzione di Carlo Angelino, trad. di Adriano Fabris, Genova, Il Melangolo, 1983. Titolo originale: Gelassenheit, 1959